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LETTERA APERTA AL PRESIDENTE LETTA: MA DAVVERO LE IMPRESE CERCANO “ALIBI” PER NON ASSUMERE?

Agostino Bonomo ed Enrico Letta

Mi piacerebbe sapere, da uno dei mille enti che a ogni minuto sfornano dati statistici, di quanto è diminuita la disoccupazione in Italia da quando, qualche giorno fa a Bruxelles, il Presidente del Consiglio Enrico Letta ha dichiarato: «Ora le imprese non hanno più alibi per non assumere».
Così, a naso, direi che quella cifra non si è spostata di una virgola. E, anche se non sono un guru dell’economia, mi sento in grado di fornire una risposta: perché, caro Presidente, non è un “alibi” a rendere difficile l’aumento dell’occupazione, ma una serie di ragioni oggettive.

La prima delle quali risiede, ovviamente, nella difficile congiuntura che stiamo vivendo, una situazione che però in Italia viene acuita da tutti gli ostacoli che il (mal)funzionamento del sistema-Paese frappone all’impresa.
Il nostro premier pensa davvero che assumere dipendenti, creare maestranze, formarle, cercare commesse qui come in tutto il mondo, dare lavoro e quindi creare benessere nei territori, sia così semplice? I suoi esperti ministeriali si sono davvero chiesti come mai in Italia abbiamo più di 3milioni di disoccupati e una disoccupazione giovanile che è arrivata al 40%? Chissà perché, a me viene in mente la (non rimpianta) ministra Elsa Fornero, che non sapeva neanche il numero degli “esodati”.
Intanto si continua a proclamare che c’è bisogno di creare lavoro, senza però risolvere i problemi di chi quel lavoro dovrebbe fornirlo, e cioè le aziende. Ebbene, egregio Presidente, cominciate a sollevare le nostre imprese da tutte quelle vessazioni che lo Stato, nelle sue infinite articolazioni, si inventa ogni giorno per renderci la vita impossibile, sempre più vulnerabili nella concorrenza internazionale. Non basterebbero tutte le pagine di questo giornale per descrivere le inutili pratiche burocratiche, l’assillante pressione fiscale, i controlli non coordinati ai quali siamo sottoposti, le procedure (magari con valore retroattivo) che vengono imposte anche alla più piccola delle ditte.
E allora, o si capisce che un’impresa, nonostante tutto ciò che si fa per scoraggiarla, assume quando è in grado di farlo (ed è orgogliosa se può farlo, perché vuol dire che sta crescendo e garantisce benessere sociale), oppure mi chiedo di quale futuro stiamo parlando.  
Così come preferisco stendere un velo pietoso sull’altro soggetto che dà lavoro, ovvero il settore pubblico: mi auguro solamente (e inutilmente, lo so) che non lo faccia più, che la finisca di essere un serbatoio di assunzioni clientelari, una riserva di voti di scambio, e che da oggi impieghi tutta la pletora del suo personale amministrativo a disboscare la selva delle pratiche burocratiche inutili, assurde, contraddittorie, che ha creato col risultato di asfissiare i cittadini (o dovrei dire sudditi?).
Non nascondo di essere stato tra coloro che avevano riposto molta fiducia in questo governo, un esecutivo che pareva animato da un ritrovato senso di unità e orgoglio nazionale, da spirito di servizio e di responsabilità; tanto più che di Enrico Letta ricordavo gli interventi alla scuola per dirigenti di Confartigianato , quando le sue lezioni esprimevano concetti ben diversi rispetto all’infelice affermazione che «ora le imprese non hanno più alibi per non assumere».
Conclusione: propongo che ogni politico debba avere nel suo curriculum, come “conditio sine qua non” e specie se ha in animo di diventare ministro, un percorso in azienda. Magari con la formula dello stage, con valutazione finale dell’ imprenditore che lo ha assunto, fermo restando che chi non avrà raggiunto un punteggio minimo di 7/10 non potrà proseguire carriera politica. Io mi candido ad ospitarne due all’anno, e li pagherei come i miei collaboratori (1100 /1200 euro al mese, per un costo aziendale di 2200 euro). Credo che, se provassero a vivere con questa retribuzione e vedessero da vicino i salti mortali che deve fare il titolare dell’azienda, forse dalle loro bocche uscirebbero molti meno spropositi.