Mario Rigoni Stern e il forno dell’Ébene
Un racconto sull’antico forno di Contrada Ébene, poco fuori Asiago. Fu questo il contributo che Mario Rigoni Stern volle dare quando, nel marzo del 1996, la Settimana dell’Artigianato realizzò una giornata dedicata alla “Civiltà del Pane”. Vale la pena rileggerlo.
In quella occasione, il Mandamento di Asiago dell’Associazione Artigiani (oggi Confartigianato), in collaborazione con il Comune, promosse il ripristino di quel piccolo ma prezioso manufatto, che tuttora si può ammirare passeggiando intorno all’area dell’aeroporto asiaghese. L’evento venne celebrato anche con un l’edizione di un libriccino che, dopo l’Introduzione firmata dal presidente provinciale Assoartigiani Franco Miranda, ospitava lo scritto di Rigoni Stern, affettuosamente sospeso fra storia e poesia. Non più ristampato, lo riproponiamo oggi, come merita, all’attenzione dei nostri lettori.
Il forno dell’Ébene
di Mario Rigoni Stern
È ancora lì; è rimasto intatto nella sua struttura perché a proteggerlo da incendi, guerre, alluvioni ha come copertura due grandi tavole di pietra, Stoanplatten, che portano e sfidano il Tempo.
Il vecchio forno dell’Ébene! Quante volte da ragazzo ci sono passato accanto senza notarlo? Forse perché quei quattro muri e il tetto erano parte integrante del paesaggio e della contrada? E poi, come sempre, sono le brutture a risaltare, a stonare: un’armonia si gode, si assimila e basta.
Ci passavo accanto da ragazzo quando andavo a nidi con i compagni; quando andavo a vedere lavorare l’Andrea Matha, il bravo carradore, o quando, tornato dalla guerra, nelle albe autunnali andavo a caccia. Poi, un giorno, un amico me ne parlò: – Sai, il forno dell’Ébene? Lo usano per buttarci dentro i rifiuti. Non sarebbe il caso di proteggerlo? –
Fu ripulito e murata la bocca; almeno così, compatto e solido, avrebbe affrontato anche i tempi moderni. Quando passavo di là, ora, l’accarezzavo con lo sguardo. Oh, se lo notavo! E pensavo alla sua storia, alla storia della nostra gente montanara: “Ti hanno costruito i nostri antenati e per i nostri nipoti sarai testimonianza della loro vita. Come vorrei che i miei racconti restassero nel tempo come tu sei restato; ma questo non sarà possibile. Anche se qualcuno ha scritto che le parole sono pietre”.
Correva l’anno 1203…, così, forse, potrebbe incominciare la nostra storia. In quel piano, l’Ébene, il più vasto della conca circondata da selve di faggio e di abete, c’era una bella radura prativa e, poco lontano, una sorgente. Fu per questo che una famiglia si staccò dalla contrada principale, Sleghe, per lì costruirsi una nuova casa in tronchi sopra il basamento di pietra. Diradando la foresta si potevano ottenere dei buoni terreni a prato. Dopo qualche anno un’altra famiglia venne qui dagli Untargeiche; e così altre. Diventò la contrada dell’Ébene.
Si allargarono i pascoli e, dal Consiglio della Comunità, venne concesso a quelle famiglie di roncare i gerbidi verso il Ghellewald. Si seminarono orzo, segala, avena, lenticchie, lino. Qualche volta quei seminativi venivano visitati dagli orsi e dai cervi, tanto che si dovette proteggerli tutt’intorno con palizzate.
La pila da orzo e il mulino erano sul Pach e lì si portavano i grani dopo la battitura. Ora, oltre ai latticini, alla carne di selvaggina, ai frutti selvatici e alle verdure degli orti si potevano mangiare di più pane e minestre di orzo. Ma per il pane bisognava portare la pasta al Bach-ofen degli Slegar e le più volte quel forno si trovava occupato dalle famiglie della contrada maggiore.
Una sera d’estate, dopo il raccolto, la gente dell’Ébene si ritrovò a parlare davanti alle case e le donne fecero capire agli uomini e figli che anche loro avrebbero voluto un forno per cuocere il pane qui nella contrada. Gli uomini ci pensarono e poi decisero.
Scelsero il posto nello slargo tra le case e si misero subito a scavare la fossa e la base per posare le pietre. Il più ingegnoso, dopo essere andato a vedere i forni delle contrade Sleghe, Lamara e Bald, con un pezzo di carbonella lo disegnò su una tavola con le sue misure. Quattro uomini si misero a scavare le pietre dalla collina della Kerla da dove i giovani più gagliardi con una barella le portavano a pié d’opera. Per il legante tra pietra e pietra con due muli a soma andarono a prendere quella sabbia particolare contenente gesso che il ghiacciaio dell’Asstal aveva deposto millenni prima oltre l’Höl.
Lavoravano alla sera, da dopo cena fino a quando scendeva il buio. Le donne e i bambini si fermavano a guardare.
I muri presero forma di armonico rettangolo. A giusta altezza le pietre vennero lavorate verticalmente a chiave di volta e sopra, fu questo il lavoro più faticoso, si posarono le grandi e pesanti lastre di pietra che dal Poltrecche erano state scavate e fatte scendere su rulli di tronchi, guidate e trattenute da corde di radici verdi. A tirarle poi fino all’Ébene, sempre sui rulli, furono i quattro muli della contrada. Ora si trattava di metterle sopra la muratura a fare tetto spiovente a due falde. Tennero consiglio perché c’era pericolo che sotto il grande peso delle Stoanplatten tutto il manufatto crollasse.
Quello che aveva fatto il disegno disse la cosa più giusta e l’attuarono: riempirono e costiparono bene di terra grassa il vuoto interno, altra terra venne riportata e pressata contro i muri esterni come a fare due piani inclinati contrapposti e su questi piani inclinati con rulli di faggio e facendo leva, dolcemente, le due grandi pietre salirono a prendere il posto che ancor oggi hanno. Quella sera, tutti, bambini, donne uomini anziani, erano lì ad ammirare il bel lavoro.
A scegliere la Loam compatta e soda sul fondo del Ghelpach andò un vecchio che un tempo l’aveva lavorata per fare le terraglie. I ragazzi che lo avevano seguito si misero subito a scavarla; altri ragazzi andavano e venivano portandola con le ceste dal Ghelpach all’Ébene. Lì un uomo l’impastava e poi il vecchio con le mani la spalmava nell’interno del forno. Quando tutto fu terminato venne acceso il fuoco; dapprima leggero e poi via via più forte. Dopo tre giorni il forno era pronto.
Quella sera d’autunno gli anziani della contrada tennero consiglio per concordare l’uso del nuovo manufatto. Tutti gli abitanti, in silenzio, stavano attorno ad ascoltare. Si stabilì che, a turno, una famiglia una volta alla settimana doveva provvedere con le fascine a riscaldarlo e in quel giorno, dall’alba al tramonto, il forno era a disposizione di tutti. Così si fece per secoli. Alla sera di ogni giovedì il profumo del pane, che doveva bastare per tutta la settimana, si spandeva tra le case e fasciava la contrada dell’Ébene.
Qualche volta pare ancora di sentirlo.