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CAUSA PILOTA DI UN TERZISTA VS BENETTON

Per la Legge sulla subfornitura era “dipendenza economica”

Riportiamo un importante articolo apparso ieri 5 settembre, sulle pagine dei quotidiani del gruppo Finegil
(Nuova Tribuna Mattino e Corriere delle Alpi) a firma di Renzo Mazzaro.

Il rugbista-fornitore fa causa ai Benetton. Il campione Collodo: amico della famiglia, aprì un maglificio Poi il crac per la delocalizzazione che ha ucciso tanti laboratori. Vuol provare di essere stato un lavoratore subordinato: «Stabilivano loro tempi e metodi».

Oscar Collodo, nome prestigioso del rugby nazionale e regista per molti anni del Benetton Treviso dove giocava come mediano d’apertura, trascina in tribunale Benetton. È la fine ufficiale di un sodalizio che è andato molto al di là dell’attività sportiva, per diventare scelta professionale e di vita. Nel 1985 Collodo aveva lasciato la Cassa di Risparmio di Padova, dove lavorava, accettando di diventare contoterzista per i Benetton. L’intesa con la famiglia di Ponzano era tale che, chiusa la camera agonistica nel 1993 e quella di allenatore nel 1997 (anno in cui portò il Benetton Treviso allo scudetto), Collodo era diventato un manager del gruppo, uno dei collaboratori più stretti di Luciano, Gilberto e Giuliana. Incontri conviviali, viaggi con l’aereo privato, che non l’hanno salvato dalla rovina: la delocalizzazione decisa senza preavviso dai Benetton l’ha lasciato sul lastrico, lui come tanti altri piccoli imprenditori che avevano un rapporto esclusivo di fornitura. A nulla è valsa la frequentazione con la famiglia. Per evitare il fallimento e pagare gli stipendi ai 18 dipendenti del maglificio che gestiva con la moglie, Oscar ha dovuto ipotecare la casa e indebitarsi fino al collo. Oggi non ha più un soldo, vive in un appartamentino ammobiliato del Cus Padova, per il quale fa l’allenatore. È successo anche a Stefano Bettarello, altro famoso rugbista del giro della nazionale, coetaneo di Collodo, che ha avuto le stesse vicissitudini con i Benetton e testimonierà al processo. Questo processo rischia di diventare una causa pilota e rompere il silenzio su molti drammi del famoso “modello veneto”, di cui in Italia non si sa nulla. Se si apre la breccia, potrebbe perfino venirne fuori una class action. Ipotesi ancora avveniristica, perché Collodo ha fatto una fatica boia a trovare un avvocato che accettasse di rappresentarlo contro i Benetton, nome fa venire la tachicardia agli studi legali. Per non parlare delle banche. Alla fine, dopo tre rifiuti, si è sentito dire di sì dagli avvocati Luigi Fadalti ed Elisabetta Del Monaco. La causa stabilirà anche il grado di indipendenza della magistratura trevigiana nei confronti di una famiglia che permea pur sempre la vita pubblica regionale e nazionale, con il lustro di iniziative culturali e di sponsorizzazioni benemerite. Magari qualcuna, tipo il concorso per premiare a Londra il disoccupato dell’anno, dopo aver mandato a casa in Italia un sacco di gente già occupata, più che un’opera buona si direbbe una beffa. Il «maledetto laboratorio», come lo chiama oggi Collodo, viene aperto nel 1985, su proposta dei dirigenti Benetton. Chiuderà nel 2008. Per 23 anni lui e la moglie ne fanno l’unica attività, investendo tutto, fino a trovarsi oggi senza niente. Ma chi poteva dirlo allora? Gli anni Ottanta erano il momento del boom. I contoterzisti nascevano come funghi. «Bastava dire Benetton e le porte si aprivano. La famiglia faceva i suoi interessi ma il sistema la fiancheggiava totalmente», dice Oscar. «Benetton produceva 95.000 capi di lana al giorno. Come dire che ogni giorno vestiva una città come Treviso e il giorno dopo la rivestiva. Di capi noi ne facevamo 200-250 al giorno: per arrivare a quei totali Benetton aveva bisogno di centinaia di laboratori come il nostro. Intendo dire che non ci facevano solo un favore, avevano bisogno di noi. A pensarci bene era già una delocalizzazione: anziché produrre loro, producevamo noi per loro». Di fatto è un rapporto di lavoro subordinato. Come quello di un operaio. Ma formalmente Collodo e la moglie hanno costituito una società, una snc. È dura far passare la linea in tribunale. Fadalti e Del Monaco puntano sull’abuso di dipendenza economica (prevista dalla legge192/98 sulla subfornitura, articolo 9), che viene misurata sull’eccesso di squilibrio tra diritti e obblighi ma anche «tenendo conto della reale possibilità della parte che ha subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti». È la fotografia dei 23 anni del maglificio di Collodo. Benetton ha l’esclusiva e prevede tutto: quali macchinari comprare; da quale società di leasing, che naturalmente è sua; fornisce la materia prima, le schede tecniche; stabilisce i tempi e metodi di produzione, perfino la durata delle operazioni, addirittura indicando i movimenti necessari per effettuarle; impone tempi di consegna risicatissimi. Il laboratorio è controllato periodicamente da tecnici di Ponzano, che ordinano la sostituzione delle macchine anche se non obsolete. In tal caso bisogna comprarne di nuove. «Il maglificio è inglobato in una galassia produttiva», si legge nell’atto di citazione, «nella quale la produzione è fatta in massima parte ricorrendo a piccole imprese contoterziste, messe tra loro in concorrenza per sfruttare la rivalità tra laboratori e in tal modo ottenere spostamenti, aumenti e diminuzioni della produzione, senza trovare ostacoli. Un caso per tutti, quello relativo alla sostituzione di 43 mila etichette (solo dal gennaio 2003 al marzo 2003) su maglieria realizzata all’estero con quelle attestanti la produzione made in Italy». Simpatico venire a saperlo dieci anni dopo. Magari avendo pagato, giustamente, un prezzo italiano in negozio. D’improvviso nel 2002 il fatturato del maglificio di Oscar Collodo crolla a 420.286 euro, dai 737.236 dell’anno precedente. È un campanaccio d’allarme, più che un campanello: è partita la delocalizzazione all’estero. Benetton ne dà notizia ai contoterzisti solo nel 2004, liberandoli dall’esclusiva. Ma come diversificare la produzione se il laboratorio è stato strutturato per lui? Tanto più che Collodo viene rassicurato: per il suo maglificio ci saranno sempre commesse, a patto che acquisti nuovi macchinari. E’ questo che fa più male all’ex mediano d’apertura della nazionale, il giocatore che mise a segno i primi tre punti nel primo Campionato del mondo di rugby (partita Italia-Nuova Zelanda, finale 6-70): aver creduto ai Benetton anche se le commesse e il fatturato continuavano a calare. Essersi intestardito a prenderli in parola, comprando i macchinari richiesti, facendo sempre nuovi mutui, gli ultimi per 160.000 euro nel 2007, pochi mesi prima che la Benind Spa (sempre Benetton) gli desse di punto in bianco il benservito. E’ stato Collodo a portare lustro a Benetton, giocando e allenando in una squadra che portava il suo nome, non viceversa. In compenso, lavorando perla sua azienda, è finito sul marciapiede, con l’accompagnamento di rovesci familiari che non mancano mai in questi casi. C’è un prezzo per tutto questo? Toccherà al giudice quantificarlo e non sarà facile. La prima udienza del processo si è tenuta il 4 luglio. Entro settembre gli avvocati di Collodo depositeranno la prima memoria. La seconda con le prove documentali e le testimonianze il 17 ottobre. In aula si torna il 19 dicembre. È possibile che a testimoniare, oltre all’ad della Benind Spa Biagio Chiarolanza, vengano chiamati anche i Benetton. Il gruppo di Ponzano è rappresentato dagli avvocati Michele e Diego Pantaleoni, che hanno una sola versione: «L’azienda si è sempre comportata correttamente». Ma nel caso di una sconfitta, non temete un proliferare di azioni di rivalsa? «Noi contiamo di vincere»