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INTERVISTA A MARIO SCHEGGIA (CALZATURIFICIO MARIO BRUNI) CHE PARLA DELLA SUA ADESIONE A CONFARTIGIANATO PROPRIO PER IL PROGETTO DEL CERTIFICATO 100% MADE IN ITALY

Imprenditori che credono nel 100% made in Italy: Mario Scheggia. Mantiene produzione e fatturato, convinto sostenitrice del “made in Italy”, pronto a potenziare l’export e contrario al Micam anticipato.
 
Ha affrontato la crisi più grave nella storia dell’industria calzaturiera mantenendo tutte le fasi produttive in Italia, conservando novanta posti di lavoro complessivi, compresi quelli dell’indotto e senza nemmeno ricorrere a un’ora di cassa integrazione. Lo ha fatto con tenacia e convinzione, superando anche la perdita del suo contitolare, Bruno Scheggia, deceduto nel 2011 mentre si trovava in Cina per partecipare a una fiera. La voglia di continuare è più forte di qualsiasi altra circostanza per il calzaturificio Spring di Montegranaro, fondato nel 1956, conosciuto con il marchio Mario Bruni, dal nome dei fratelli Bruno e Mario Scheggia, che lo hanno portato da una produzione iniziale di 30 paia alle attuali 350-400 paia al giorno, tutte per uomo, sviluppando un fatturato che si aggira attorno agli 8 milioni di euro. L’Italia, storicamente il primo mercato di destinazione per l’azienda, oggi è insidiata dalla Russia: entrambe garantiscono il 30% delle venditetotali, a seguire Paesi arabi e Stati Uniti. Quattro i punti vendita monomarca: Milano, Dubai, San Pietroburgo e Praga, oltre allo spaccio aziendale di Montegranaro. In azienda lavorano anche i figli: Barbara, che ha raccolto l’eredità di suo padre, il compianto Bruno, Eugenio, Anastasia e Cristina (i tre figli di Mario) e insieme hanno ormai completato il passaggio generazionale, visto che ricoprono ruoli strategici. Tutta la produzione si svolge in via Turati, sede dell’azienda, e dintorni, con lavorazione artigianale. «Abbiamo aderito alla Confartigianato – precisa Mario Scheggia – per poter apporre l’etichetta “100% made in Italy” sulle nostre calzature». Ma è così importante un’etichetta? Reputiamo che il made in Italy rappresenti un valore aggiunto per i nostri prodotti, quindi vorremmo che ci fosse più promozione. Associazioni e istituzioni fanno ancora troppo poco. C’è chi si impegna parecchio per l’obbligatorietà del “made in”, non altrettanto per la tutela del made in Italy. Per le istituzioni, infine, mantenere la produzione in Italia non è considerato un fatto premiante. Mai stati tentati dalla delocalizzazione? No, mai. Non è la nostra filosofia. Se si continua a togliere lavoro all’Italia, poi chi ci compra le scarpe? Il mercato domestico è importante. A proposito di mercati, come è andato il 2013? Lo abbiamo chiuso in linea con il 2012 e crediamo che il 2014 confermerà l’attuale livello produttivo. Siamo riusciti a mantenere le vendite in Italia e all’estero, con qualche problema per quanto riguarda la puntualità degli incassi all’interno. Meglio esportare? Uno dei nostri obiettivi è sicuramente quello di aumentare le esportazioni. Siamo consapevoli del fatto che non potremo fare affidamento sulla Russia per sempre, per cui stiamo tentando di potenziare Cina, Paesi arabi e altri mercati emergenti. Come ci arrivate? Con la nostra struttura, con le fiere, con i vari contatti. Facciamo le valigie e partiamo. Aiuti e incentivi? Pochi, anche in questo caso. Si fermano al contributo per partecipare alle manifestazioni fieristiche. Sarebbe più opportuno promuovere dei pacchetti turistici mirati per far arrivare i buyer nelle Marche: in questo modo otterremmo la promozione non soltanto della calzatura, ma anche del territorio. Russia e dintorni: stanno rallentando? Un po’ di crisi si fa sentire. Ci sono poi i problemi interni, dall’Ucraina ad altre repubbliche ex sovietiche divise tra chi vorrebbe entrare nella Ue e chi invece è contrario. Questi contrasti generano complicazioni alla dogana, scioperi, manifestazioni, chiusura di strade e gente che certo preferisce restare in casa piuttosto che uscire. Inoltre, i buyer russi hanno cominciato a chiedere dilazioni nei pagamenti: arrivano e ci dicono che altri fornitori, magari nostri vicini di casa, gliele hanno concesse. Provano a farci fare la guerra tra di noi e spesso ci riescono. Quali sono le difficoltà che incontrate quotidianamente? Reperire manodopera specializzata, a causa della scarsa formazione che c’è nel nostro distretto. Altri ostacoli sono rappresentati da burocrazia, pressione fiscale, mancata reciprocità dei dazi doganali, fino alle date del Micam. Non vi piace l’anticipazione? Esatto! Ma chi l’ha decisa? Forse una minoranza. Per noi sarà ben difficile riuscire a preparare tutta la collezione entro il 31 agosto, c’è il problema ferie per dipendenti e fornitori, così come l’anticipazione di ricerca e design. Ma il punto è un altro: le nuove date incentivano davvero le presenze straniere? Noi abbiamo interpellato i nostri clienti russi e in molti ci hanno detto che non verranno più a Milano. Come siete riusciti, nonostante tutto, a mantenere i livelli produttivi in tempo di crisi? Grazie ai nostri punti di forza: qualità, servizio ad una clientela perlopiù storica e fidelizzata, ampia collezione ricavata da circa mille prototipi. Fiduciosi? Per forza! Facciamo ciò che sappiamo fare e ogni giorno ci impegniamo al massimo.