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“MA DOVE SONO GLI ARTIGIANI?”

Giuliano Secco intervistato sull’Espresso

Riportiamo l’articolo apparso sull’Espresso del 5 giugno scorso che da ampio spazio al tema dei suprefornitori caro alla categoria della Moda di Confartigianato Imprse Veneto.

Le case della moda ne hanno enorme bisogno, pero faticano a trovarne. Le vecchie maestranze escono scena, e non c’è ricambio. Soluzione? Le scuole fai da te. Più che la concorrenza cinese i marchi italiani del fashion e del lusso ormai temono l’avanzare dell’età. Quella dei loro operai ed artigiani però, che cominciano ad avere i capelli bianchi, in assenza di un rinnovamento delle maestranze. «La rimagliatrice più giovane qui ha 55 anni., spiega il presidente di Confartigianato Abbigliamento, Giuliano Secco. La mappatura del comparto tessile abbigliamento calzaturiero (Tac) che l’associazione degli artigiani ha realizzato nella regioneVeneto-un’indaginea tappeto su quasi 8 mila aziende del settore- ha evidenziato in effetti come nel corso dell’ultimo decennio il numero degli occupati con meno di trent’anni si sia ridotto di due terzi, mentre gli addetti con meno di 50 anni si sono dimezzati. Il ricambio generazionale non sembra esserci stato. «L’allarme l’avevamo lanciato già 15 anni fa»,continua Secco, «le aziende andavano all’estero, delocalizzavano la produzione, e i giovani hanno perso interesse per mestieri che sembravano senza futuro. Le scuole professionali hanno cominciato a svuotarsi. Oggi i nodi di questo allontanamento dalle fabbriche stanno venendo al pettine: «Non si trovano più rimagliatrici, rammendatrici o orlatrici, perché nessuno più sa fare questi lavori osserva il presidente. Nel frattempo anche le tecnologie si sono evolute, si lavora con le macchine, bisogna saperne usare almeno cinque o sei, e il personale più anziano fatica a star dietro a questi cambiamenti. Il fenomeno non è limitato al solo Veneto: l’ultimo rapporto di Intesa Sanpaolo sull’economia e finanza dei distretti industriali ha rilevato che quasi il 70’% delle imprese di tutta Italia, capofila nel cormparto Tac, lamenta un «grave problema» nella capacità del territorio di rinnovare le competenze professionali. E questo accade, paradossalmente, proprio nel momento in cui le grandi griffe cominciano a riportare in patria produzioni un tempo delocalizzate all’estero, spinte dai vantaggi che il ricorso a subfornitori italiani comporta, in termini di qualità del prodotto e affidabilità, competenza della forza lavoro, flessibilità produttiva e capacità di personalizzazione e progettazione, come sottolineano gli analisti di Intesa Sanpaolo. Insomma la manodopera italiana, pur essendo più cara di quella straniera, è indispensabile per realizzare quei prodotti made in Italy di qualità che il mundo ci chiede. Il guaio è che questa manodopera scarseggia. «Negli ultimi venti o trent’anni abbiamo tolto dignità sociale ed economica al lavoro artigianale», interviene Brunello Cucinelli, patron dell’omonima maison del cashmere. Chi avrebbe mai consigliato al figlio di diventare artigiano a 900 euro al mese? Partendo da Solomeo, una frazione del comune di Corciano, in provincia di Perugia, l’imprenditore umbro è arrivato a mettere in piedi una multinazionale della moda con più di 320 milioni di euro di fatturato, e oltre una ventina di filiali nel mondo. Ma la forza di un brand come Cucinelli sta proprio nel know-how dei suoi operai artigiani, quasi 400 su un totale di mille dipendenti. «Cartigiano non è più oggi quello “del sottoscala”«, continua Cucinelli, «oggi lavora con l’Ipad oltre che con ago e forbici«. Nell’intento di restituire nobiltà ai vecchi mestieri artigianali, il re del cashmere ha creato nel borgo di Solomeo una scuola ispirata all’esempio di William Morris, dove si insegnano rammendo e rammaglio, taglio e confezione, orticoltura e giardinaggio, persino l’arte muraria. Perché il mondo intero, spiega Cucinelli, «è affascinato non solo dai nostri manufatti, ma anche dai nostri luoghi«, e quindi c’è più che mai hisogno di un’azione di restauro e abbellimento del territorio. Coperazione ha funzionato, i giovani hanno ricominciato ad appassionarsi ai lavori manuali. «All’ultimo corso di taglio, partito lo scorso aprile, si sono presentati in 400 per 14 posti a disposizione«, dice. È tornato l’entusiasmo, allora? 1900 euro al mese non fanno più paura? «Attenzione, nella nostra azienda lo stipendio di un operaio è uguale a quello di un impiegato«, precisa l’imprenditore, «e se l’operaio è un artigiano, ha un 20% in più di premio. Un sarto a 25 anni comincia con 1.800 euro al mese, ma nel giro di qualche anno potrà anche arrivare a prenderne 2 o 3mila. La crisi ha sicuramente giocato un ruolo in questo nuovo approccio alla realtà delle fabbriche. «Gli ultimi anni hanno portato i giovani ad avvicinarsi al lavoro con più umiltà, osserva Toni Scervino, amministratore unico della Ermanno Scervino. casa di moda fiorentina con quasi cento milioni euro di ricavi e 250 addetti. «Prima volevano fare tutti gli impiegati, ora c’è una generazione che ha meno pretese, è un nuovo fenomeno«. Dunque è la rassegnazione a spingere i giovani a fare mestieri che prima snobbavano? «Non credo, io vedo piuttosto una nuova voglia di manualità«, replica Scervino, «perché i nostri sono lavori ad altissima tecnologia. Nessuno immagina quanto know-how ci sia dietro un abito. Ci sono filati che per essere lavorati bene hanno bisogno di essere immersi nel riso secco, tessuti che devono essere vaporizzati per ore, c’è tanta sperimentazione con nuovi materiali. Tutti segreti custoditi gelosamente.che determinano quella qualità della nostra manifattura che il mondo ci invidia. Noi infatti chiediamo alle nostre sarte che vanno in pensione di restare più a lungo possibile per trasmettere le loro conoscenze alle più giovani: perché rutto questo know-how non vada perso occorrono anni di affiancamento«. La formazione, alla Ermanno Scervino, la fanno tutta a Bagno a Riposi, fuori Firenze, dove sono concentrate anche la prototipia e la produzione. «Al nostro interno abbiamo un maglificio, un laboratorio di sartoria e uno di haute couture«, continua l’imprenditore, «erano tre aziende distinte che abbiamo assorbito, realtà di tradizione che esistevano da generazioni, quindi con un know-how pazzesco«. Qui le maestre più anziane raccontano come una volta il mestiere si imparasse in famiglia, quando a ogni bambina si mettevano in mano l’ago e l’uncinetto a cinque anni. Da tempo non è più cosi: «Facciamo la guerra con Ie altre aziende per strapparci sarte c modelliste, ammette Scervino. Anche perché gli affari vanno bene, le esportazioni continuano a crescere, e con l’ampliamento della presenza in Cina e lo sbarco previsto negli Usa sarà necessario raddoppiare la capacità produttiva con l’assunzione di un centinaio di apprendisti. Qualità richiesta? -La passione: questo è un lavoro che si fa per passione», risponde l’imprenditore. -Lo dobbiamo far capire ai giovani: creare con le proprie mani un vestito, che poi si vedrà nelle sfilate e sui giornali di tutto il mondo, è bello e gratificante. Bisognerebbe fare una promozione a livello di media, televisione. Chi mai voleva fare il cuoco dieci anni fa? Ma oggi si sentono tutti chef. Dobbiamo fare lo stesso con la sartoria. Il nostro è un paese manifatturiero, senza capacità manuali il made in Italy muore-. Questa difficoltà nel reperire manodopera qualificata ha spinto alcuni dei marchi più noti a farsi la scuola in casa, con largo anticipo su Cucinclli. Alla Brioni, ad esempio, storica azienda oggi parte del gruppo francese Kering, sono partiti ben prima che cominciasse il fenomeno della delocalizzazione, che solo negli anni dal 2006 al 2012 ha eliminato quasi 90 mila posti di lavoro dal comparto. Dal 1989, anno in cui si diplomarono i primi studenti del corso quadriennale di sartoria, la scuola Nazareno Fonticoli di Penne, vicino Pescara, ha formato tutte le nuove leve di artigiani entrate nella maison abruzzese. Così che oggi tutti e 57 i capi reparto di Brioni provengono dalla scuola interna. In Bottega Veneta si sono mossi più tardi. Spiega Marco Bizzarri, presidente e ceo della griffe vicentina, che fa capo sempre alla multinazionale di Francois Pinault: -Noi non abbiamo mai pensato di delocalizzare: l’eccellenza artigianale e la raffinatezza tecnica del design dei nostri prodotti richiedono abilita manuali che non si trovano in alcun altro luogo al mondo. Inoltre, la scoria e l’identità del nostro marchio sono strettamente connesse alla cultura del Veneto-. Così nell’estate 2006 Bottega Veneta ha avviato un corso triennale di pellettiera per formare le future generazioni di artigiani, prima appoggiandosi alla Scuola d’arte e mestieri di Vicenza, da ultimo creando una sua struttura didattica permanente all’interno del nuovo atelier di Montebello Vicentino, in collaborazione con il corso di laurea in design della moda dell’Università luav di Venezia. Un esempio che anche Prada si appresta a seguire. La maison di lusso guidata da Patrizio Bertelli ha da poco annunciato che nel 2015 inaugurerà in Toscana un’accademia tecnicoprofessionale che formerà ogni anno 60 giovani di età compresa tra i 16 e i 21 anni, con un programma di 12 mesi finalizzato all’inserimento nella rete produttiva del gruppo. Rete che il prossimo anno verrà ampliata con altri quattro stabilimenti industriali, due in Toscana e due nelle Marche, oltre agli 11 già attivi nel nostro paese, e 700 nuove assunzioni entro il 2016. «Dobbiamo trasmettere il know-how alle generazioni future, ha dichiarato Rertelli presentando la nuova Prada Academy: «il made in Italy non è solo un’etichetta, sono le persone che sanno fare un mestiere». E perché in Toscana? «Perché quello è il bacino di elezione delle competenze che costituiscono il dna della manifattura made in Italy», rispondono dal suo staff. E lì insomma che si coltivano ancora quelle abilità nell’arte pellettiera e delle calzature che hanno reso celebre un marchio come Church’s. Anche per Diego Rossetti, con i fratelli Luca e Dario titolare dell’omonimo calzaturificio di Legnano (Milano), una di quelle “multinazionali tascabili” che hanno contribuito ad affermare lo stile italiano nel mondo, con 320 dipendenti e una settantina di milioni di ricavi, è convinto che sia l’abilità manuale a fare la differenza: «Oggi si lavora molto con l’elettronica », dice Rossetti, «soprattutto nell’ambito dello sviluppo, cioè del design e della modellazione. Un prototipova sviluppato in 12 taglie diverse e questo si fa con l’AutoCad: ma anche se ci sono delle macchine per tagliare la pelle, i materiali più pregiati continuano ad lavorarsi a mano. Il problema è però culturale: tutti vogliono fare gli stilisti, troppi giovani prendono la strada del design. I ragazzi sono convinti che il lavoro in fabbrica sia svilente, sono stati del resto i genitori ad avergli trasmesso questa diffidenza. Che non si riesce a superare, perché non conoscono la realtà manifatturiera». Da nord a sud, il grido d’allarme degli addetti ai lavori per il mancato ricambio generazionale suona più o meno lo stesso. Con qualche eccezione. Come alla Kiton di Arzano, capofila di quel distretto dell’abbigliamento nel Napoletano che complessivamente genera un giro d’affari superiore al mezzo miliardo di euro, e dove l’età media dei lavoratori è di 36 anni. Anche alla Kiton si sono fatti la scuola interna. Racconta l’amministratore delegato, Antonio De Matteis: «Siamo partiti nel 2000 con un corso di alta sartoria per 15 ragazzi. Due anni cui seguivano altri due anni all’interno della produzione, con una rotazione nel vari reparti. Abbiamo fatto tutto da soli, senza aiuti, perché avevamo bisogno di sostituire i sarti che andavano in pensione, ed è stato il più grande investimento che potevamo fare per il nostro futuro«. Mai pensato di prendere manodopera straniera, magari cinese? «No, solo ragazzi italiani. Noi italiani abbiamo qualcosa che gli altri nel mondo non hanno. Più che la capacità manuale abbiamo l’occhio, il senso estetico. Sono qualità innate, che certo non si ricreano facilmente». Chi invece non può permettersi di fare formazione interna sono i laboratori che lavorano per conto terzi, i cosiddetti fasonisti: realtà in grado di intervenire con estrema rapidità in tutte le fasi della produzione, che rappresentano pertanto la struttura portante della filiera. La tempestività e flessibilità che gli viene richiesta è incompatibile con tempi di affìancamento e apprendimento. Il Maglificio Ferdinanda di Vazzola, provincia di Treviso, opera ad esempio da quasi mezzo secolo come subfornitore di marchi famosi come Hermès, Louis Vuitton e loro Piana, con un’offerta di servizi a 360 gradi, che va dalla lavorazione dei filati più pregiati alla campionatura e alla realizzazione dei carta-modelli, dalla programmazione dei macchinari alla tessitura, alla confezione e rifinitura a mano, fino al lavaggio, lo stiro e la spedizione dei capi ultimati. «ll nostro è un Iavoro che richiede mani molto abili e occhi buoni, perché usiamo aghi finissimi, spiega la responsabile commerciale, Ferdinanda Tomasin. «Oggi però abbiamo bisogno di manualità intelligente, perché abbiamo più di 40 macchine, e il personale lo facciamo girare quando ci sono cali di lavoro«. Quel che serve quindi, continua la Tomasin, sono competenze trasversali: «persone con conoscenza della tessitura e smacchinarura, ma anche di tutta la parte di confezione e modellistica. Trovarle è un’impresa». E’ per questo che in questo maglificio veneto il 20% degli addetti (un centinaio, quasi tutte donne) è costituito già oggi da ragazze dell’Est Europa, per lo più provenienti da Bosnia, Romania e Moldavia. «c’è ancora una cultura del saper fare. Nelle nostre famiglie, non si trasmette più«