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Annamaria Testa racconta la creatività: ciò che distingue intelligenza umana e IA

Per avere una visione complessiva sulla ‘rivoluzione’ che sta portando l’IA (o AI in inglese), Confartigianato Imprese Vicenza e il suo Digital Innovation Hub (DIH) hanno proposto tre ‘Conversazioni’ sul tema. Ad aprire il calendario, l’appuntamento incentrato su “Intelligenza Artificiale e Creatività” che ha avuto come ospite Annamaria Testa, protagonista indiscussa nel mondo della comunicazione e, appunto, della creatività.

È ormai assodato che anche le imprese artigiane iniziano a guardare all’IA non solo come a uno strumento di modernizzazione, ma anche come a un alleato in grado di soddisfare esigenze spesso non immediatamente evidenti. L’IA può dunque giocare un ruolo cruciale anche nella formazione dei nuovi artigiani e nella trasmissione dei saperi, offrire spunti di ispirazione o strumenti per analizzare le tendenze, può aiutare ad esplorare la creazione di nuovi materiali, combinando magari alcune tecniche tradizionali con le nuove scoperte scientifiche, e aprire nuovi scenari in termini di personalizzazione. Si tratta perciò di capire come unire tali potenzialità della tecnica alla creatività, ovvero alla “più importante e preziosa facoltà umana”, come ha ricordato proprio Testa.

Dove nasce la creatività

La creatività è la facoltà che più ci appartiene come esseri umani e ci permette di inventare, scoprire, modificare l’ambiente in modo a noi favorevole e di crescere. É la creatività che ci ha permesso di avere tutto quello che ci appartiene. Senza di essa non ci sarebbero né cattedrali né astronavi, né occhiali, non ci sarebbero certi tessuti né le medicine. Se così non fosse, pochi di noi sarebbero ancora in qualche landa sperduta a spulciarsi a vicenda.

La creatività è quindi inventare e scoprire, è il momento preliminare dell’innovazione, innovazione che è un fenomeno economico e sociale che nasce appunto da un’idea e la mette “in pratica”. L’idea d’altro canto nasce dalle nostre menti, a livello individuale o di gruppo, ed è frutto della tensione a superare gli ostacoli, allargare gli orizzonti, sanare le ferite, dare alimento alla nostra curiosità, scoprire il nuovo. È importante essere consapevoli di quanto sia preziosa questa facoltà e di che cosa si alimenti, cosa la migliori, cosa la faccia crescere, perché questo ci permette di applicarla meglio in tempi di Intelligenza Artificiale.

L’importanza delle parole

Riusciamo a collaborare tra noi, anche a litigare, ma tutto quello che ci circonda è frutto di cooperazione. Come faremmo a costruire una casa, un’auto, una penna, da soli? Noi umani siamo una specie che coopera e quello che ci permette di farlo è la condivisione del linguaggio. Il linguaggio è una facoltà che si è sviluppata a partire da duemila anni fa, quando i nostri progenitori hanno lentamente cominciato ad articolare suoni distinti che mano a mano acquisivano significato, diventavano complessi, e di pari passo cresceva il nostro cervello. Crescendo il cervello, il linguaggio si articolava permettendoci di parlare non solo di cose concrete ma anche di concetti astratti come la gioia, l’amore, la paura, l’ansia. Il linguaggio è una macchina meravigliosa: un insieme di suoni che diventano parole, ciascuna delle quali ha un senso perché nessun discorso è uguale ad un altro.
Il primo atto creativo, quindi, che ciascuno di noi fa è parlare: trasmettendo senso, idee, intenzioni, progetti. Non solo è creativo parlare, perché inventiamo mondi: altrettanto creativo è ascoltare.
Chi ascolta, paradossalmente, comprendendo fa un’operazione ancora più creativa, perché deve ricostruire nella sua mente, in tempo reale, il senso di quello che sente, collegando parola per parola con il rispettivo significato e anticipando lo sviluppo del discorso fino a ricostruirsi un quadro generale nella mente. Facciamo questo lavoro in frazioni di millesimi di secondo, ci ascoltiamo e ci capiamo, facciamo un grande lavoro creativo condiviso. Ciò significa però che le parole vanno usate bene, se “sbrodoliamo” parole per riempire spazi vuoti, sonori o scritti, tradiamo la vocazione del linguaggio, che è comunicare, cioè trasmettere elementi importanti, comprensibili e utili per chi legge e ascolta. Questo significa che ci vuole una “igiene” nelle parole, dobbiamo parlare sapendo cosa stiamo dicendo, chiedendoci quali sono i codici e gli interessi, ma anche il livello di comprensione, dell’interlocutore. È un’esperienza comune il fatto che a un bambino non parliamo come a un adulto. E quando siamo in una situazione professionale parliamo in modo diverso, usando gerghi diversi da quelli che usiamo parlando con un amico, con la nonna o con il medico. Ciascun ambito ha i suoi gerghi, ha i suoi modi, ha i suoi tempi. E noi facciamo questa distinzione in maniera istintiva e automatica. Dobbiamo ricordarci di farlo quando, a maggior ragione, come professionisti comunichiamo. Comunichiamo per entrare in contatto con gli altri, non per mettere in scena noi stessi; in questo senso, la sintesi è un gran contributo che si dà alla comprensione: ti chiedo il minor tempo possibile per avere il maggior risultato possibile. Quindi, se possiamo dire una cosa in 100 parole e non in 500, diciamola in 100.

Intelligenza Artificiale: un po’ di storia

Ho cercato di capire cos’è l’Intelligenza Artificiale un anno fa. Ho studiato e poi ci ho lavorato sopra. Questa curiosità determina anche la longevità professionale nel mio settore.
Alla base di tutto è importante capire da dove si parte. Tutto comincia appena finita la Seconda Guerra Mondiale, quindi nel secolo scorso, quando, dopo aver capito come funzionava il cervello, alcuni ricercatori americani si chiedono cosa accadrebbe se con un computer ne “ricalcasse” (all’epoca con macchine enormi e lentissime) la sua struttura. “Riusciremmo a farlo ragionale?” si sono chiesti. Questa fu la prima intuizione. Eravamo nel 1946. Dopo la guerra, sempre negli Stati Uniti, un gruppo di ingegneri, scienziati e ricercatori, un paio di premi Nobel e informatici, si riuniscono per due mesi e cercano di definire un campo di studi che è inedito, che non c’era, ed è talmente nuovo che non ha nemmeno un nome. Quindi si interrogano e alla fine passa la definizione di Intelligenza Artificiale, cioè macchine intelligenti che funzionano da sole e senza il costante intervento umano. Intelligenza Artificiale è un nome affascinante tanto quanto “brainstorming”, cioè “tempesta di cervelli”, che non è una tempesta né tanto meno di cervelli. Perciò l’Intelligenza Artificiale non è poi così “intelligente”, però i nomi hanno la capacità di sedurci.
Le ricerca sull’Intelligenza Artificiale vanno avanti un bel po’. Al’inizio c’è un grandissimo entusiasmo e un sacco di soldi vengono investiti in questa nuova tecnologia e, siccome gli americani hanno sempre in mente la difesa, anche in questo caso interviene il Dipartimento della Difesa con un sacco di denaro. Le ricerche però vanno avanti lentissimamente, perché non c’è ancora abbastanza potenza di calcolo: i computer sono troppo lenti per processare l’enorme quantità di dati che invece il nostro cervello può processare. Il nostro cervello, infatti, va molto più in fretta e consuma molta meno energia dei computer degli anni ’60. Si procede quindi lentissimamente per decenni, è quello che gli americani chiamano “l’inverno” dell’Intelligenza Artificiale. 

A un certo punto si scordano di far lavorare i computer come fossero dei cervelli e iniziano a stiparli di dati e di norme e comandi, ottenendo qualche risultato. Come quello di imparare a giocare a scacchi, dove le norme e le regole sono fisse e stabilite. Poi le macchine diventano via via più veloci, i chip si riducono, la potenza di calcolo aumenta e si hanno i primi risultati. Siamo già negli anni ‘80/’90.
Il vero salto si ha nel 2012, quando una coppia di scienziati riprende la vecchia idea del 1946 e invece che stipare dati nel computer cerca di realizzarne uno che richiami il funzionamento del cervello e che poi in qualche riesca a processare i dati. Da quel momento le cose vanno molto in fretta e arriviamo rapidamente a dei computer che riescono a riconoscere e riprodurre immagini sempre più sofisticate, fino al 2022, quando arriva ChatGTP.
Perché dal 2012 è diventato facile far funzionare l’Intelligenza Artificiale? Primo, per la potenza di calcolo enormemente aumentata dagli esordi; secondo, perché c’è Internet, quindi un formato di per sé già comprensibile per un computer e “luogo” in cui ci sono una quantità di testi, dati immagini che permettono di alimentare l’Intelligenza Artificiale. Per cui, la prima cosa che si fa è prendere quelle ‘vagonate’ di dati e buttarli nell’IA. Il risultato è che i primi riscontri danno Intelligenza Artificiale razzista, violenta, infarcita di stereotipi, perché nel mare di Internet c’è di tutto, il meglio ma anche il peggio.
A questo punto i ricercatori dicono: “Fermi, dobbiamo filtrare i contenuti a monte”. Iniziano così a prendere i materiali e a passarli al setaccio e poi metterli dell’IA. In Africa ci sono schiere di ragazzini che per pochi dollari al giorno passano ore e ore a transitare i contenuti, etichettandoli.
L’IA, quando ha visto 40mila foto di gatto, è un grado poi autonomamente di riconoscerne uno. Ma un bambino di tre anni quanti gatti deve vedere per riconoscerne uno?

Come apprende l’Intelligenza Artificiale

Il primo è il “deep learning”, l’“apprendimento profondo” che coinvolge infiniti stati neuronali che ad oggi mimano abbastanza bene il funzionamento del nostro cervello. Si parla perciò di “apprendimento supervisionato”, ovvero “butto materiali tipo video nell’IA, le dico cosa sono e lei a un certo punto riesce a riconoscerli”. Questo tipo di apprendimento funziona molto bene quando l’IA deve replicare procedure, come riconoscere immagini di gatto o una macchia sospetta in una lastra (nel settore medico) poco visibile all’occhio umano. L’IA, che è molto veloce e ha una memoria che nessuno di noi riesce ad avere, fa molto bene e molto in fretta queste operazioni meccaniche e ripetitive. Attenzione però: l’Intelligenza Artificiale in medicina ‘legge’ i risultati individuando anomalie, ma poi la terapia, in base al paziente che ha davanti, la sceglie il medico. L’IA lavora con efficienza, velocità, non è mai stanca (può lavorare più e più notti di seguito) ma non è “umana”.
Il secondo tipo di apprendimento si basa su prove ed errori e assomiglia molto al condizionamento operato da Skinner (psicologo comportamentale). Come per i piccioni del famoso esperimento, questo tipo di “addestramento” viene bene con la robotica. Il robot viene messo in un ambiente che non conosce e viene “premiato” o “punito”, cioè incoraggiato e scoraggiato fino a quando non fa tutti i movimenti esatti e giusti. Risultato: l’Intelligenza Artificiale si muove come noi desideriamo in un ambiente nuovo.
Il terzo modo di “istruire” l’Intelligenza Artificiale è quello di fornirle una gran quantità di dati, etichettati e valutati e incasellati da essere umani, e le si chiede di processarli per trovare degli schemi. L’IA, infatti, lavora per schemi come il nostro cervello, ma i suoi riconoscimenti dipendono dai materiali che noi umani le abbiamo fornito e da come noi umani li abbiamo etichettati. Una volta che l’IA ha questi due paradigmi (materiali e schemi) può andare velocissima e, grazie a una memoria formidabile, cercare frequenze e ricorrenze che a noi sfuggono. 

Sono questi i tre modi principali, applicati poi con tante variazioni, con cui l’Intelligenza Artificiale apprende: ma non è per questo propriamente “intelligente”, ha semplicemente una memoria formidabile, può processare ed elaborare una quantità di dati e norme avendone una visione globale senza trascurarne uno. Da questo punto di vista, può integrare le nostre facoltà, ma non sostituirle. 

In merito all’Intelligenza Artificiale e ai suoi risvolti su certi tipi di produzione, come appunto quella artigianale, il consiglio è occuparsi di più e preoccuparsi di meno. Perché preoccuparsi non serve, bisogna capire questa nuova tecnologia, che è stata una grande scoperta unita a Internet (che fornisce i materiali per alimentarla). Si tratta di una rivoluzione paragonabile all’invenzione della stampa o dell’agricoltura, con la differenza che per lo sviluppo dell’agricoltura sono serviti mille anni, 60/70 per quello della stampa, mentre da quando si è iniziato a parlare di ChatGTP è passato appena un anno e mezzo. Tutti noi utilizziamo qualche forma di IA: quando cerchiamo qualcosa su Google o Facebook viene usata per schedarci come potenziale pubblico pubblicitario, i chatbot sono governati da forme semplici di IA. Quindi questa tecnologia è già nella nostra quotidianità. Si tratta di applicazioni meccaniche: viene tolta la manovalanza intellettuale (ovvero lavori ripetitivi frustranti e che non arricchiscono) e liberando tempo e risorse mentali per fare cose più importanti e/o uniche.

IA e artigiani

Chi chiederebbe all’IA di tagliargli i capelli o di potare un ulivo? C’è una quantità di cose che non sono alla sua portata e non sono standardizzabili, programmabili o schematizzabili. Sono tutte quelle operazioni e lavori che gli esseri umani fanno guidati dal loro talento, dalla loro sapienza, da quel “saper fare” che è tipico della dimensione dell’artigianato. Come anche il lavoro della comunicazione.
Certo, posso chiedere a ChatGTP di farmi un testo, funzionando su base statistica e “pescando” tra i significati delle parole e le regole grammaticali di 90 lingue, ma mi fornirà una risposta semplicemente mettendo in fila le parole su base statistica, ovvero un susseguirsi di parole in base alla probabilità che a quella parola segua l’altra. Il risultato è il massimo di un discorso standardizzato: magari riesce a distinguere tra “racconta una storia” e “scrivi un articolo”, ma la risposta avrà sempre modi standard, stereotipati e corrispondenti alla media di tutta la scrittura che esiste in quell’ambito.
Se abbiamo difronte un’entità che sembra capirci e rispondere a tono tendiamo a umanizzarla,  perché abbiamo i neuroni specchio, perché come esseri umani siamo costruiti per avere empatia. 

Lo facciamo anche con l’IA. Ma questa tecnologia può darci solo un discorso formalmente preciso che, come discorso medio, corrisponde anche alle nostre attese, quando non prende abbagli o allucinazioni, ma di certo non ci stupirà mai con un’idea nuova. 

Il nocciolo è che nel momento in cui ha capito la nostra domanda e ci risponde a tono tendiamo ad antropomorfizzarla; in realtà, lei sta solo producendo una serie di segni, una stringa di parole, senza sapere quel che sta facendo, senza avere consapevolezza di sé e di noi. Insomma: pura apparenza, bravissima con gli stereotipi.
L’IA non ha la più pallida idea di quel che fa e perché. Detto questo, è uno strumento sofisticatissimo che però di certo non sostituisce l’intelligenza umana, la creatività, il saper fare. 

L’IA non è ironica, non capisce le metafore, i paradossi. Lavora male sui giochi di parole. Insomma, manca del tutto dei marcatori della personalità creativa: senso dello humour, dell’iperbole, del vedere il mondo con occhi attenti e vibranti che colgono le contraddizioni, cose che aiutano a superare le tempeste della vita. Un altro marcatore della creatività è la curiosità: l’IA non è ansiosa di scoprire cose nuove, di sapere cose nuove. Terzo punto: la creatività è sempre visionaria. L’IA ha tante capacità che possiamo sfruttare, ma manca di qualsiasi visione. Quella dobbiamo averla noi.

IA e l’artigianalità

Artigianalità è saper interagire con l’ambiente e la materia, piegandoli dopo averli compresi. L’artigiano che lavora con il legno o con i capelli o sistema un impianto, che usa la sua sapienza attraverso le mani, non sarà mai sostituibile dall’Intelligenza Artificiale. L’IA non conosce le mani perché non le ha: da qui anche la serie di errori che commette nelle foto. Questo ci dice dei suoi limiti rispetto anche a un bambino di tre anni. Ma l’IA va comunque conosciuta, e un segno della rinnovata creatività umana è capire come la si può utilizzare al meglio. Una delle sfide del prossimo futuro, sia per chi costruisce cose che per chi lavora per altre imprese, è come migliorare i propri servizi grazie a questo tipo di Intelligenza, personalizzando e quindi offrendo un servizio migliore ed esclusivo. Altra funzionalità sono i chatbot per i clienti; la si può inoltre utilizzare per la logistica e la manutenzione. È chiaro, perciò, che per le aziende diventerà sempre più importante un dialogo efficiente con il cliente, fornire un servizio prezioso e costante, il che premia più della scontistica.
Dobbiamo avere l’intelligenza di spacchettare l’IA e prendere quella parte che più può essere utile e funzionale alla nostra realtà aziendale: per esempio per l’analisi dei dati, per interpretare tendenze o lavorare meglio. Se quindi ci avviciniamo a questa tecnologia con la nostra creatività, ci apriamo la strada a tante nuove opportunità. Lo sforzo è il “problem finding”: identifica bene qual è il tuo problema e quali sono i requisiti che deve avere la soluzione, e poi dà ‘i comandi’.

BIOGRAFIA DI ANNA MARIA TESTA

Protagonista del mondo della comunicazione e della creatività, alla professione di consulente per le imprese affianca una intensa attività di scrittura e oltre vent’anni di docenza universitariaPubblicitaria e giornalista, docente e autrice di saggi, Annamaria Testa inizia a lavorare nel 1974 come copywriter e nel 1983 fonda la sua agenzia di pubblicità.Ha insegnato presso l’Università La Sapienza di Roma, l’Università degli Studi di Torino, l’Università IULM e l’Università Bocconi di Milano. Si è occupata di comunicazione politica. I suoi scritti sono citati in oltre 200 paper scientifici censiti da Academia.edu.Nel 2008 ha aperto il sito “Nuovo e Utile”, sul quale ha pubblicato oltre 700 articoli dedicati a creatività, comunicazione e dintorni.Come giornalista ha scritto per diverse testate e dal 2012 scrive per il settimanale Internazionale.Nel 2015 ha progettato e lanciato l’iniziativa no profit #dilloinitaliano, contro la diffusione pervasiva dell’itanglese, dal 2016 fa parte del Gruppo Incipit dell’Accademia della Crusca e dal 2017 è consulente per il Salone del Libro di Torino.Ha pubblicato diversi saggi su creatività e comunicazione fra cui “La parola immaginata” (Il Saggiatore) diventato un classico per generazioni di pubblicitari, “La trama lucente” (Rizzoli, 2010), “Minuti scritti. 12 esercizi di pensiero e scrittura” (Rizzoli, 2013) e con Garzanti “Il coltellino svizzero. Capirsi, immaginare, decidere e comunicare meglio in un mondo che cambia” (2020) e “Le vie del senso” (2021).Nella sua lunga e importante carriera ha ricevuto numerosi riconoscimenti, fra cui il premio Eccellenza nella Comunicazione e il premio “Donna è web”.Nel 2012 è entrata nella Hall of Fame dell’Art Directors Club Italiano, prima donna pubblicitaria negli oltre venticinque anni di vita del Club. Nel 2013 Udi e Parlamento Europeo le assegnano il premio Immagini Amiche e Rai Storia le dedica una puntata insieme a Emanuele Pirella.