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ALIMENTARISTI: COSI’ QUESTA NORMA UE DIVENTA LA SCUSA PER UNA NUOVA TASSA

20/02/2009ALIMENTARISTI: COSI' QUESTA NORMA UE DIVENTA LA SCUSA PER UNA NUOVA TASSA «Chiamiamo le cose con il loro nome: il Governo ha introdotto una nuova tassa sulla produzione e sul commercio all'ingrosso di prodotti alimentari, con un'interpretazione estensiva e cervellotica di una norma dell'Unione europea, la 882 del 2004. Con buona pace degli impegni tanto sbandierati di lotta alla burocrazia, abbattimento del carico tributario e federalismo fiscale». Ruggero Garlani, presidente degli Alimentaristi dell'Associazione Artigiani Confartigianato di Vicenza, non usa mezzi termini per condannare il decreto legislativo 194 del novembre 2008 uscito dal superministero del Welfare, che recepisce il regolamento CE 882/2004: «Siamo di fronte – dice – all'ennesima, scandalosa interpretazione all'italiana di una norma europea: il regolamento CE in questione era mirato all'effettuazione di controlli sanitari per una serie di attività dell'agroalimentare: l'applicazione italiana introduce invece un balzello generalizzato di 400 euro per molti operatori, che con i controlli non c'entrano niente». Altrettanto chiara la richiesta di Garlani: «Visto che la nuova norma è stata introdotta di fatto, senza consultare le categorie interessate e quasi all'insaputa delle Regioni, è indispensabile che il provvedimento venga sospeso, per poterlo calibrare correttamente, ritornando al rispetto della normativa CE». L'impatto per il mondo artigiano della trasformazione alimentare, tra l'altro uno dei pochi che sta reggendo a fatica alla crisi, è rilevante. Stiamo parlando infatti di almeno 3.500 imprese coinvolte, il 40% delle oltre 8mila operanti nella Regione Veneto, che diventano 30mila su tutto il territorio nazionale. I conti sono presto fatti: nelle casse dello Stato entrerebbero come minimo 12 milioni di euro l'anno. Il reg. CE 882/2004, all'art. 27 comma 5, recita che nel fissare le tasse gli Stati membri tengano conto dei seguenti elementi: a) il tipo di azienda del settore interessata e i relativi fattori di rischio; b) gli interessi delle aziende del settore a bassa capacità produttiva; c) i metodi tradizionali impiegati per la produzione, il trattamento e la distribuzione di alimenti; d) le esigenze delle aziende del settore situate in regioni soggette a particolari difficoltà di ordine geografico.«Riteniamo – afferma Garlani – che questi criteri siano vincolanti, ma completamente disattesi con l'individuazione delle fasce quantitative e la determinazione degli importi dovuti, perché vengono parificate aziende appartenenti a settori diversi con differenti gradi di rischio. Inoltre – prosegue il presidente Garlani – nella prima fascia vengono considerate alla stessa stregua ditte individuali senza dipendenti con quelle con capacità produttiva di tipo industriale, penalizzando fortemente le prime. E proprio a queste, che sono la stragrande maggioranza, viene chiesto di corrispondere entro il 31 gennaio di ogni anno una tariffa di almeno 400 euro quale copertura delle spese relative ai controlli, a prescindere dall'effettiva possibilità di procedere al controllo sulla totalità delle imprese, visto il considerevole numero delle stesse». «Quindi – conclude Garlani – a nostro parere siamo di fronte alla riscossione di una vera e propria imposta, disattendendo del tutto il principio della progressività delle imposizione fiscale in quanto, in considerazione degli importi forfetari, le imprese inserite nella prima fascia pagano proporzionalmente in misura molto superiore a quelle delle altre due fasce, andando contro le più elementari logiche di mercato e generando una grave penalizzazione per le piccole imprese nella concorrenza sia in ambito nazionale che comunitario».