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BANGLADESH, SÌ AI SINDACATI. CHIUSI 200 SITI TRA I PIÙ PERICOLOSI

A tre settimane dal crollo del Rana Plaza, in cui 1.127 persone, per la maggior parte operai tessili, sono morte e altre 2.438 sono rimaste ferite, il governo del Bangladesh ha deciso che autorizzerà la creazione di nuovi sindacati per preservare i diritti dei lavoratori. Il portavoce dell’esecutivo, Mosharra Hossain Bhuiyan, ha annunciato che gli operai del tessile potranno unirsi in nuove organizzazioni e discutere salari più alti e migliori condizioni di lavoro. La decisione arriva nel giorno dell’annuncio del colonnello dell’esercito, Sajal Shaykhuzzaman, sulla fine delle operazioni di soccorso, a partire da domani. Due giorni fa Dacca ha disposto un aumento del salario minimo dei lavoratori del tessile, attualmente attorno ai 40 dollari (30 euro), senza però comunicare la nuova cifra. Dopo la tragedia del crollo dell’edificio di 8 piani dal quale 1.127 corpi sono stati estratti nel corso delle operazioni, le autorità hanno proceduto al miglioramento degli standard di sicurezza di quasi 950 fabbriche del Paese, ritenute a rischio. Diciotto stabilimenti sono stati chiusi dall’inizio dell’inchiesta. Gli industriali del Bangladesh hanno deciso di chiudere 200 fabbriche tessili di Dacca a tempo indeterminato a causa delle continue proteste degli operai. Lo ha annunciato Atiqul Islam, presidente dell’Associazione dei produttori e esportatori di abbigliamento del Bangladesh (Bgmea) in una conferenza stampa a Dacca. Nelle oltre 4 mila industrie tessili del Paese sono impiegate più di tre milioni e mezzo di persone. Sulla vicenda è intervenuto anche il premio Nobel e pioniere del microcredito nei Paesi emergenti, Muhammad Yunus, che ha avuto già dei colloqui con l’associazione Transparency International per fissare un tetto minimo agli stipendi dei lavoratori che realizzano capi di abbigliamento per conto dei marchi occidentali: «I salari che paghiamo a questi lavoratori anche il Papa li ha definiti una paga da schiavi: 40 dollari al mese. Questo deve essere solo un ricordo del passato». Le 4.500 fabbriche di vestiti del Bangladesh producono per conto dei marchi occidentali della moda, che vendono poi i vestiti a prezzi estremamente concorrenziali. Il Paese è il secondo produttore al mondo, con un giro di affari di 20 miliardi di dollari, per l’80 per cento esportato. Tragedia di Dacca in Bangladesh Fascina: “donna estratta viva dopo 17 giorni. Un miracolo che merita di essere accompagnato da una presa di coscienza: produciamo in Italia, comperiamo italiano” “Miracolo a Dacca (Bangladesh). Una donna è stata estratta viva dopo diciassette giorni trascorsi sotto le macerie dell’opificio crollato il 24 aprile scorso e che ospitava almeno cinque imprese di abbigliamento. Una sopravvissuta che porta un po’ di luce nel buio di oltre mille morti (l’ultimo bilancio è di 1.033 ma è in continuo aggiornamento) e oltre 2.500 feriti di cui, molti, gravi. Un miracolo che deve essere accompagnato da una presa di coscienza di produttori e consumatori italiani, europei e nord americani. Le aree del mondo per le quali quei lavoratori morti e feriti stavano producendo capi di abbigliamento”. A dichiararlo Gianluca Fascina, Presidente Federazione Moda di Confartigianato Imprese Veneto- che spiega: “basta con il dumping sociale. Basta con lo sfruttamento. Basta con le scuse banali dei committenti che stridono con le carte che si rinvengono ogni volta tra le macerie. Basta con capi di abbigliamento pagati un euro e venduti per centinaia nei negozi dell’occidente. Le catene ed i grandi marchi devono rendersi conto che il bilancio sociale ed economico di tutto questo è in perdita per tutti. Sociale perché le rivolte che seguono ad avvenimenti come questi portano ad un impoverimento del genere umano. Ma anche economico. I risarcimenti che i sindacati bengalesi e IndustryALL -la federazione internazionale dei sindacati tessili- stanno valutando in questi giorni per la tragedia di Dacca si aggirano già sui 30milioni di dollari. Esclusi i costi dell’assistenza medica per le centinaia di feriti”. Di fronte ad una tragedia immane, la più grande mai avvenuta nella storia dell’industria di abbigliamento, tale da far impallidire disastri precedenti come quello dell’incendio alla fabbrica Triangle di New York del 1911 in cui morirono 146 operaie (da cui la dedica alle donne della giornata dell’8 marzo), e tragedie più recenti come i due incendi scoppiati in meno di 24 ore l’anno scorso in due fabbriche del Pakistan in cui morirono circa 260 persone oppure l’incendio dell’altro ieri, sempre a Dacca e sempre in una fabbrica tessile, in cui hanno perso la vita 7 persone, Fascina lancia un duplice appello: alla committenza perché torni a produrre in Italia marchiando le proprie linee con il 100% made in Italy; ma soprattutto ai consumatori affinché si informino e prestino sempre più attenzione al fatto che gli abiti che acquistano siano confezionati in condizioni di produzione eque e dignitose. “La differenza di costo che c’è nel produrre in Italia (o in Europa o in Nord America) non può giustificare questo neo colonialismo e questo schiavismo – dichiara Giuliano Secco, Presidente nazionale dell’Abbigliamento di Confartigianato-. Bisognerebbe andare nelle scuole a far vedere ai ragazzi le foto scattate in Bangladesh fra le rovine della fabbrica e risvegliare in loro una coscienza sociale e le emozioni nel cuore. Formare i consumatori di domani potrebbe agevolare la crescita dei livelli di salute e sicurezza nel lavoro in Paesi lontani. Una azione non banale se si pensa che l’abbigliamento pesa per l’80% delle esportazioni del Bangladesh ed ha un giro d’affari di 20 miliardi di dollari all’anno”.