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Generation Mix: le aziende incontrano i giovani

Giovani in cerca di lavoro, imprese in cerca di giovani. Se l’incontro non avviene, o genera insoddisfazione in una delle parti, qual è il problema?

La risposta è complessa e articolata. A fornire qualche spunto di riflessione è stato lo studioso Lucio Zanca che, attraverso l’Ufficio Scuola Confartigianato, ha incontrato gli imprenditori vicentini illustrando “chi sono” i giovani d’oggi e come intercettarli. Riportiamo qui una sintesi del suo dialogo con gli artigiani perché, più che una lezione frontale, si è trattato di una chiacchierata per fare chiarezza su come attuare, attraverso la “Generation Mix” tra cosiddetti Boomers, Millennials e Generazione Z, un modello moderno di gestione delle risorse umane, con il supporto anche di intermediari come appunto Confartigianato.
La questione non è solo trovare o non trovare persone da inserire in azienda: spesso si tratta anche di dover creare dei team di lavoro, all’interno delle realtà produttive, dove si trovano a convivere quattro generazioni.

Fino a oggi, infatti, non è mai capitato che nello stesso ambiente lavorativo ci fossero giovani (fino ai 28 anni), giovani adulti (dai 28 ai 45 anni), chi guida l’attività (dai 45 ai 60 anni) e i fondatori o esperti (fino anche gli 80 anni!). Un mix generazionale che va messo a sistema per individuare le competenze richieste dal mondo attuale (basti pensare alle applicazioni della tecnologia). Chi guida e sviluppa il team, infatti, deve avere ben chiaro che bisogna adeguarsi ai tempi, e che la leadership come la si intendeva anche solo dieci anni fa non esiste più. 

Cosa pensate dei giovani?

Ecco alcune risposte: “Sono spaesati, concentrati sul telefonino; sfortunati per il periodo complesso in cui vivono, fortunati per le tante opportunità che hanno; hanno valori diversi, talvolta sembrano non motivati o non avere una visione del proprio futuro; sono belli e interessanti perché hanno competenze e saperi nuovi; sono un po’ frastornati e mostrano molte fragilità di partenza nonostante le opportunità; credono poco nelle loro capacità, e così facendo sfuggono le occasioni.

Ed ecco alcune considerazioni al riguardo, partendo da una prima evidenza che sta nella informazione, ovvero nel fatto che i giovani poco conoscono realmente del mondo del lavoro; e d’altra parte le stesse aziende conoscono poco loro (i loro modelli, le loro aspirazioni, i loro stili). Altro tema forte è la paura del paragone. In un “universo social” i giovani oggi si trovano a doversi confrontare con il mondo, non più solo col vicino di casa o di banco. D’altronde, a ben pensarci, i primi a far paragoni e confronti sono i genitori (frasi tipo: “Ai miei tempi”, oppure: “E Marco, che voto ha preso?”e via discorrendo). Il continuo confronto porta alla paura di non farcela, di non essere all’altezza, di sbagliare. Inoltre, i messaggi generici vengono interpretati da ogni persona in maniera soggettiva. L’esempio sono quei ragazzi che, pur lavorando con soddisfazione in una realtà imprenditoriale, già pensano a cambiare, perché a un certo punto è stato loro narrato che in un mondo “liquido” il cambiare sarebbe stato all’ordine del giorno. Vero, ma anche no. Però, a forza di sentirlo e leggerlo, tale messaggio è diventato regola, cioè: “Se non cambio ogni tre anni non sono nessuno”. Ma se ti trovi bene in un’azienda, se sei soddisfatto del lavoro e della remunerazione, se vedi una prospettiva di crescita, perché devi andar via per forza dopo un po’ di tempo?

Un’altra evidenza è che si sono dissolti i luoghi d’incontro tra generazioni, sostituiti dai “media mondi”. I primi erano luoghi d’incontro reali, dove si imparava dai grandi per osmosi, naturalmente osservando; nei secondi mancano le interazioni. E, di nuovo, vengono a mancare le informazioni.
In pratica, oggi i giovani hanno abitudini profondamente diverse da quelle della generazione precedente, e di questo bisogna tener conto quando si entra in contatto con loro. Quando fanno ingresso in un’azienda, ad esempio, è importante aprire un dialogo in cui l’imprenditore spiega e loro domandano, o viceversa; per esempio, se chiedono lo smartworking, va spiegato quali possono essere le eventuali problematiche legate a tale concessione (programmazione del lavoro, conoscenza dell’ambiente, ecc.). Il primo anno di inserimento in azienda, poi, è fondamentale per conoscere “dove si è” e instaurare con metodo il dialogo reciproco.

Cosa preoccupa gli imprenditori

Li preoccupa, dei giovani, “che si formino e poi li si perda; come integrarli nella realtà produttiva; la mancanza di pazienza” (peraltro, anche gli adulti non ne hanno molta).

Ma va capito bene se si cercano giovani con competenze o competenze giovani, perché la differenza, seppur sottile, è parecchia. Nel primo caso il focus è sulla persona, nel secondo sull’urgenza di trovare chi svolga quel tipo di lavoro. Qui si apre anche il capitolo della formazione: non si possono dare alla scuola eccessivi compiti, perché ormai uno dei pochi luoghi di scambio tra adulti e giovani è quello della trasmissione del sapere. Così, l’Università non è chiamata a insegnare un mestiere ma a fornire un “kit di conoscenze” quanto più ampio possibile, che poi sono i giovani a dover mettere insieme. Mentre gli ITS sono percorsi più pratici, che hanno un obiettivo condiviso con le imprese. Il problema dell’integrazione all’interno di un’azienda, per chi ha studiato fino al giorno prima, è quindi ben comprensibile: tant’è che molti giovani nel primo mese al lavoro vanno in crisi, perché non sanno comporre il loro “kit”.

Quanto alla mancanza di pazienza, è ovvio che se si ha la risposta a tutto in pochi secondi (giusto o sbagliato che sia, così è con le nuove tecnologie), il concetto dell’attendere non è compreso nel “kit”. Perciò anche la pazienza va allenata, i giovani vanno guidati nel capire che i percorsi sono fatti a tappe, e che l’una porta alla successiva, e che si può anche sbagliare. La paura dell’errore spesso blocca i giovani, quando invece l’errore è educativo: per imparare a fare bene una cosa bisogna fare tante volte lo stesso gesto, lo sanno bene gli artigiani. E c’è anche la difficoltà di “chiedere” a chi ha esperienza, proprio perché si è abituati ad avere subito tutte le risposte. Dall’altro lato, chi ha qualche anno di lavoro in più sulle spalle crede sempre di essersi spiegato al meglio, magari dando per scontato di aver evidenziato le priorità o i passaggi da fare, senza tener conto che le nuove generazioni quando studiano o cercano qualcosa tendono a “cestinarlo” presto per passare ad altro. In sostanza, i giovani non sono inadeguati, hanno solo abitudini diverse.

Cosa cerca l’impresa in un giovane e cosa cerca un giovane nell’impresa

Ecco il vero nocciolo della questione. Dalle risposte raccolte tra gli imprenditori, emerge che più che le competenze specifiche, che si possono trasmettere o far acquisire, interessano quelle che sono le “soft skill” individuali, interessa cioè la persona: chi è, quali sono le sue qualità personali, i suoi comportamenti.
Quanto ai giovani, secondo le ricerche, al primo posto sta il voler individuare il progetto che li vede protagonisti (faccio 5 anni di università, o 2 di ITS, e poi come intendo centrare i miei obiettivi); inoltre vogliono capire a “cosa” contribuiscono (a cosa serve quello che sto facendo, come si colloca all’interno del progetto d’impresa), e soprattutto sono molto attenti ai temi della sostenibilità e della coerenza dell’applicazione di tali principi nel luogo in cui lavorano. 

Se chiedono delle ferie e del tempo libero non sono necessariamente dei “lavativi” (la cui percentuale è oggi la stessa di un tempo), ma persone che cercano un equilibrio tra lavoro e vita privata. Al proposito, facciamo anche un’autocritica come adulti: questi giovani sono cresciuti con genitori che quotidianamente si sono lamentati del troppo lavoro, di essere stanchi per dover fare qualsiasi cosa. È abbastanza intuitivo che loro non vogliano ripercorrere quella strada. Non si può pretendere che lavorino oltre: bisogna motivarli a farlo.

Ultimo in classifica: lo stipendio

È interessante notare, però, che quando un giovane si presenta per un colloquio di lavoro si parte da quest’ultima voce e poi si risale. Qui è il mismatch che va risolto, qui si deve aprire il dialogo: “Raccontami di te, al di là di quanto c’è nel curriculum; non è che devi saper tutto, perché quello lo imparerai strada facendo”. I ragazzi hanno paura di non essere all’altezza e quindi perdono molti treni pur avendo il biglietto in tasca. Lo studio ha un approccio completamente diverso dal lavoro: a scuola hai dei feedback, delle risposte (bene, male), mentre al lavoro questo non accade. Ogni tanto, invece, i vertici aziendali dovrebbero chiedere: “Come stai?”, o dire cosa stai facendo bene, o che c’è qualche punto che si può migliorare. L’ascolto attivo è importante e arricchente per entrambi. 

Conclusione

Il mix, la creazione di qualcosa di nuovo, sta nel mezzo tra la risorsa più esperta e la giovane risorsa (che va formata). La questione è urgente, lo sottolineano le imprese. Allora, come agire?  

Su tre livelli: Orientamento; Recruiting; On boarding.
A livello di Orientamento si parte dalla 3ª superiore facendo conoscere (riecco il tema dell’ informazione) le realtà imprenditoriali ai giovani: comprese quelle di spiccata manualità, perché anche tale sapere si può acquisire. Va pure superato il concetto del “leader a tutti i costi”. Facciamoci una domanda: quanti posti di lavoro come leader ci sono disponibili? Pochi. Quindi “essere il primo a tutti i costi” è un concetto che va superato, a favore del saper “fare squadra”.
Quanto al Recruiting (l’assunzione), vanno comprese le “diverse” priorità dei giovani e si deve fare attenzione alle domande che si pongono. L’ottica dell’imprenditore non dev’essere solo quella di risolvere l’urgenza del “chi mi fa cosa”, ma dell’avere una persona da crescere.
In merito all’On boarding (l’inserimento),va detto che il primo anno è fondamentale, e che molto dipende dall’impresa. Creare la giusta relazione tra nuovo assunto e leadership, ma anche all’interno dei gruppi di lavoro, vuol dire intercettare subito segnali negativi (e intervenire) e positivi (cosa “fa stare bene”).