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I FORNITORI SONO IL BANCOMAT DELLE GRANDI IMPRESE

Antonio Vanuzzo de Linkiesta

Si parla molto di debiti della PA (giustamente) ma da anni la Confartigianato Imprese Veneto non perde occasione per sottolineare come l’artigianato soffra in misura maggiore il ritardo nei pagamenti dell’industria committente. Non a caso siamo sati tra gli sponsor più convinti della legge sulla subfornitura datata 1998, la n°192. Portiamo quindi con piacere alla attenzione un articolo apparso sul quotidiano on-line Linkiesta http://www.linkiesta.it/ritardi-pagamenti-imprese#ixzz2TYnqxhCL
Non è soltanto la Pa a non pagare in tempo, in Italia. Le grandi e medie imprese utilizzano i fornitori come bancomat, i quali a loro volta si rivalgono sui terzisti. Non proprio l’ideale per un Paese che sta affrontando la più grave recessione dal ’70. Con la direttiva sui ritardi dei pagamenti (7/2011), relativa al 2010, recepita l’anno scorso e in vigore dal primo gennaio di quest’anno, salvo casi particolari bisogna aprire l’obbligo è pagare a 30 giorni, ma nessuna impresa si è ancora adattata al nuovo quadro comunitario. Al netto dello stock dei debiti accumulati, ciò significa che nei primi mesi dell’anno se ne sta creando uno nuovo. Proprio ciò che la direttiva voleva evitare. Lo si evince con chiarezza dai dati che Idaira Robayna Alfonso, responsabile degli affari legali della Direzione generale Industria della Commissione Europea, ha presentato a Milano a fine febbraio: «Nelle transazioni commerciali con le amministrazioni pubbliche la durata media per I pagamenti è di 180 giorni( 90 x contratto + 90 ritardo medio), nelle transazioni commerciali tra privati la durata media dei pagamenti è di 96 giorni(65 x contratto + 31 ritardo medio)». Malcostume confermato dall’urlo di alcuni piccoli al Corriere del Veneto, che denunciano: «I grandi ci pagano a 80 giorni più altri 80 di ritardo». In realtà i numeri sono anche peggiori. Fiat, ad esempio, ci mette 200 giorni a saldare, Telecom 150. Come mai? Nel testo del provvedimento, Bruxelles non fissa un tempo massimo – dipende dagli accordi tra privati – ma agisce sulla leva degli interessi legali. I quali corrispondono, dove non espressamente specificato, al tasso Bce più almeno l’8%, cioè l’8,5 per cento. Se la tempistica è stabilita espressamente nel contratto tra le parti – poniamo a 60 giorni – gli interessi scattano a partire dal 61mo giorno, mentre il ritardo non può superare i 60 giorni. Se l’accordo non fornisce alcuna indicazione sulla liquidazione delle spettanze, invece, gli interessi scattano 30 giorni dopo la data della fattura o della richiesta di pagamento equivalente, oppure 30 giorni dopo la data di ricezione dei beni/servizi. Un esempio a caso: se Selmat vanta un credito di 300mila euro in sospeso da 55 giorni verso Fiat, ovvero con un ritardo di 25 giorni, l’interesse annuale dell’8,5% comporta maggiori oneri per 25.500 euro, 68 euro al giorno. Difficile che si verifichi una situazione del genere: il coltello dalla parte del manico ce l’ha la multinazionale, o la grande impresa, che mette sul tavolo del fornitore un nuovo contratto che allontana ulteriormente il momento in cui vedrà comparire l’agognato bonifico sul conto corrente. Cribis D&B, società del gruppo Crif che analizza le banche dati delle Camere di commercio, ha osservato come nel 2012 soltanto «il 44% delle imprese italiane ha pagato alla scadenza le fatture ai propri fornitori, il 10% con un ritardo superiore ai 30 giorni». Una percentuale doppia rispetto al 5% del 2010. Il trend è peggiorato nel primo trimestre dell’anno, quando «ben l’11,1% delle imprese italiane ha saldato i propri debiti oltre 30 giorni dopo la scadenza pattuita (0,6% in più rispetto al dato di fine dicembre 2012)». Le imprese attive nel settore agricolo e dei servizi finanziari sono le più ligie, una su due ha pagato nei termini pattuiti nel primo trimestre di quest’anno. Va peggio a chi opera nel commercio al dettaglio, con un’impresa su tre che salda in tempo: «La percentuale maggiore di imprese che pagano con un ritardo intermedio (fra i 30 e i 90 giorni medi) è quella del Commercio al dettaglio (11,8% del totale)». Le micro imprese (meno di 10 dipendenti e fatturato inferiore a 2 milioni di euro), ça va sans dire, sono le più puntuali (50%), mentre solo il 14% delle grandi (oltre 250 dipendenti e fatturato superiore a 50 milioni) rispetta i termini contrattuali. Non intaccare la cassa posponendo le proprie pendenze è una mossa che funziona soltanto se hai una dimensione che ti consente di dettare le regole del gioco, oltre che il perimetro del campo. Al 31 dicembre 2012, Telecom Italia aveva debiti commerciali per 10,5 miliardi (10,9 a fine 2011) e cassa per 7,3 miliardi (6,6 nel 2011). Le pendenze di Fiat verso i fornitori sono salite l’anno scorso a 16,5 miliardi (16,4 nel 2011), mentre la liquidità è salita a 20,8 miliardi (20,6 nel 2011). I debiti commerciali di Enel, infine, sono saliti a 13,9 miliardi rispetto ai 12,9 del 2011 e cassa per 9,9 miliardi (7 miliardi nel 2011). Sommandoli, superano i 32 miliardi della Legge di Stabilità. A guardare le proporzioni è dunque facile intuire che difficilmente le tre società in questione riescano a rispettare il termine di 60 giorni. Nel primo trimestre 2013 essi sono continuati a salire a 17,5 miliardi per Fiat, mentre per Telecom sono scesi a 9,1 miliardi e a 12,1 miliardi per Enel. Quali sono i rischi? Lo spiega un paper di Bankitalia del 2004, quando per crisi finanziaria si intendeva quella del ’29. Scrivono Paolo Finaldi Russo e Luigi Leva: «In Italia, in particolare, il peso dei debiti commerciali sul passivo delle imprese è generalmente superiore a quello del debito bancario a breve termine. Il grado di sostituibilità tra queste due forme di finanziamento è quindi un elemento di interesse anche per la politica monetaria: ad esempio, a seguito di impulsi restrittivi le imprese per le quali l’accesso al credito bancario diventa più difficoltoso possono cercare di accrescere il ricorso al debito commerciale erogato da imprese non “razionate”, attenuando, di fatto, l’efficacia delle manovre di politica monetaria». Fabrizio Saccomanni, che di Bankitalia è stato direttore generale fino a ieri, lo sa bene.