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IL MADE IN ITALY? CHIEDETELO AGLI INGLESI

La foto in chiaro-scuro della moda italiana,
tra un mercato interno in calo e esportazioni che reggono o migliorano

di Nicola Misani e Paola Varacca, docenti del Dipartimento di management della Bocconi

La moda è da sempre una delle anime del made in Italy. È capace di esprimere marchi globali, durevoli e invidiati dai gruppi stranieri. Acquisizioni come quella di Louis Vuitton (LVMH) di Loro Piana, un leader di qualità nell’abbigliamento maschile, provano il valore dei marchi e dei prodotti delle nostre aziende. I dati economici parlano però di una sofferenza nelle vendite. Il 2012 si è chiuso con un fatturato di settore pari a 50,4 miliardi di euro, con un calo del 4,4% sul 2011. Mille e 300 aziende sono sparite, con la perdita di circa 16mila lavoratori. Questi risultati nascondono un divario fra un mercato interno in calo costante ed esportazioni che reggono e in alcuni casi migliorano. I tassi di crescita maggiori per l’abbigliamento italiano sono in Cina (+18,3% nel 2012), Stati Uniti (+15,1%) e Giappone (+14,9%). Francia, Germania e gli altri mercati europei registrano invece un calo vistoso. Il primo trimestre del 2013 conferma questo trend, con un mercato italiano in calo (-2,2% sullo stesso periodo del 2012) ed esportazioni in miglioramento (+1,2%, dati Sistema moda Italia). Un andamento simile si registra per pelletteria e calzature. I risultati di settore si ripercuotono sulle performance delle singole aziende: crescono imprese come Prada e Ferragamo, che hanno storicamente una forte presenza commerciale all’estero e soprattutto in Asia; sono in difficoltà i campioni nazionali che dipendono prevalentemente dal mercato italiano, come Geox, che ha dovuto recentemente presentare un piano di esuberi. L’Europa, sia pure stagnante, resta un presidio fondamentale per la legittimità del marchio. Il mercato cinese desta attualmente qualche preoccupazione, a causa del rallentamento della crescita locale. Gli imprenditori italiani sembrano comunque pronti a entrare nei mercati emergenti più giovani, come dimostra Zegna, che quest’anno è stata la prima azienda occidentale del lusso ad aprire un negozio nell’Africa sub-sahariana (a Lagos, in Nigeria). Nel 1981, Zegna era stata anche la prima a entrare in Cina. In questo complesso contesto di mercato, la moda italiana può contare sul perdurare di un vantaggio competitivo nella manifattura. Dopo anni di ricerca di produttori a basso costo nei paesi asiatici, il settore sta recuperando a livello globale i valori della produzione artigianale. La lavorazione dei tessuti, la modelleria, il ricamo, la maglieria e altre attività manifatturiere premiano ancora la destrezza manuale e la tradizione, quanto meno nella fascia di alto di gamma dove si crea il valore di un marchio. Il crescente desiderio di personalizzazione del prodotto da parte dei clienti porta a un recupero della sartorialità. Le aziende italiane hanno consolidato i loro punti di forza in questo campo, come dimostrato di nuovo dalle aziende straniere, che si affidano a fornitori italiani, o li acquistano, o sviluppano i loro insediamenti produttivi nei nostri distretti, per esempio nel Vicentino o in Toscana. La provenienza italiana del prodotto entra anche nelle politiche di comunicazione di queste aziende. In una recente intervista, il ceo di Jimmy Choo, celebre marchio inglese di scarpe, ha dichiarato: “Tutti, ma proprio tutti, i prodotti Jimmy Choo sono prodotti in Italia, quindi l’Italia è al centro della nostra produzione artigianale. In quanto marchio di lusso, incentrato sugli accessori, consideriamo il made in Italy come una parte essenziale della nostra brand identity e un segnale fondamentale della qualità dei nostri prodotti” (Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2013).