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IL MADE IN PRADA SDOGANA IL MADE IN ITALY

Di David Panbianco

Riportiamo l’Editoriale della rivista Panbianco magazine di Aprile 2014 che tratta il tema “caldo” della “contro delocalizzazione”.

Erano i primi anni del millennio quando Patrizio Bertelli, il numero uno di Prada, di fatto sdoganava la delocalizzazione in Cina, fino ad allora considerata un tabù, perché, spiegava l’imprenditore toscano, ciò che contava era il ‘made in Prada’. È passato un decennio e il mondo sembra essersi nuovamente capovolto. Secondo il gruppo di ricerca UniClub delle università di Catania, L’Aquila, Udine, Bologna, Modena e Reggio Emilia, dal 2009 si è avviato, lento ma progressivo, il fenomeno della rilocalizzazione dell’industria manifatturiera. Ossia del ritorno a casa di produzioni prima spostate altrove. In questa gara al rientro, l’Italia, con 79 impianti, è addirittura seconda solo agli Stati Uniti (175 rimpatri), e doppia Germania, Gran Bretagna e Francia. Del gruppo di aziende che ci hanno ripensato, una buona metà appartiene alla moda. Non è solo una questione di costi (l’Oriente è oggi assai meno a buon mercato). A giocare un ruolo chiave, dicono gli esperti, è che il ‘made in Italy’ è oggi qualcosa di più di un’etichetta e/o marchio di immagine: si è compreso quanto sia un fattore garante della qualità. Senza contare che per poter rifornire più volte a stagione i negozi, secondo la logica vincente del pronto moda, occorre produrre vicino e avere una logistica d’avanguardia, che è possibile solo in Occidente. E non è un caso che, in questi giorni, Le Monde abbia pubblicato una lunga inchiesta sulle griffe francesi, titolandola in modo critico: “I grandi del lusso derogano al ‘made in Francia’”. E avanzando il dubbio che tale strategia non sia sostenibile in un mondo che va alla ricerca della qualità “artigianale”. Ebbene, in questo mondo ri-rovesciato, in occasione della presentazione dei risultati 2013, Bertelli si è guadagnato l’attenzione dei media nazionali e internazionali per aver annunciato un piano che prevede nei prossimi due anni la costruzione di quattro nuovi impianti di produzione in Italia (scarpe, pelletteria, abbigliamento e logistica) per 80mila metri quadri complessivi, e con l’assunzione di 700 persone, oltre al raddoppio della fabbrica di Church’s nel Regno Unito. Anche in questo caso, Bertelli sdogana un tabù: quello che investire in Italia sia una penalizzazione per la redditività e che i vantaggi si manifestino sul lungo periodo. Alla velocità con cui cambiano le cose, la simbiosi tra “made in Prada” e “made in Italy” potrebbe rivelarsi una carta vincente assai prima del previsto. E per l’intero sistema.