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IL VENETO DELLA MANIFATTURA HA PERSO 11 MILA IMPRESE

Riportiamo di seguito un articolo apparso in questi giorni sulla stampa locale.
Il manifatturiero più che ritornare deve resistere. Il back to manufacturing che piace tanto oltreoceano ha senso in un’economia come quella statunitense, dove la manifattura ha un peso sul Pil attorno all’11%. Da noi la manifattura deve trovare, viceversa, nuove vie di sviluppo, diventare nuova. La dimensione internazionale da sola non è, infatti, sufficiente a portare fuori dalla crisi il Veneto. Anzi l’aggressione di nuovi mercati con l’apertura di unità estere, se non supportata da una sostituzione di nuove produzioni sempre più innovative in patria renderà di difficile sostenibilità questo processo di espansione.
A spiegarlo è Giancarlo Corò, professore associato all’Università Ca’ Foscari di Venezia. «I grandi gruppi che vanno bene all’estero non hanno reinvestito in Italia, le multinazionali non mettono capitali in Italia, le aziende più piccole non scelgono nuove modalità di finanziamento, come l’apertura del capitale di rischio, e faticano ad avere una prospettiva di crescita. Ma uno dei dati più preoccupanti è che nel processo di distruzione a cui abbiamo assistito in questi anni non è intervenuto nessun contraltare creativo. La natalità imprenditoriale si è allentata». Sono sparite dalla crisi ad oggi oltre 11mila aziende manifatturiere, ma la selezione non ha prodotto un rinnovamento. Insomma il Veneto non ha cambiato sangue. Dal 2008 al 2011, racconta l’Istat, sono svaniti oltre 56 mila occupati nell’industria in senso stretto. Nel 2012, ultima rilevazione di Veneto Lavoro, gli occupati sono scesi di altre 22 mila unità.
Tutto il segno negativo occupazionale regionale arriva dunque da lì. Infine: è nell’industria che si addensano circa l’80% delle 1.500 crisi aziendali. E non potrebbe essere altrimenti per una regione come il Veneto, dove il valore aggiunto del manifatturiero è circa il 25% del prodotto interno lordo. Ecco perché ha senso interrogarsi su come il modello vada ripensato. I gruppi multinazionali che in Italia si stanno ristrutturando, all’estero, non vanno male.
Le cifre delle esportazioni sono eloquenti al riguardo: 50 miliardi di euro realizzati oltre i confini nel 2011, cioè lo stesso livello del pre-crisi. Nel 2012 la tendenza è stata più debole, ma finora ancora positiva e conferma il Veneto seconda regione esportatrice del paese. Una delle ultime ricerche di Unioncamere, dal titolo Veneto Internazionale, afferma che «il saldo tra apertura/ampliamento e chiusura/ridimensionamento degli stabilimenti all’estero entro il 2013 è positivo per 6,4% delle aziende con almeno 20 addetti. Il saldo per siti produttivi localizzati in Italia è negativo per 1,6%.
L’orientamento delocalizzativo cresce con la dimensione di impresa». Le aziende che in questi anni si sono internazionalizzate, andando a cercare mercato all’estero per supplire alla scarsità di domanda interna, hanno investito creando posti di lavoro. Altrove, però. «Circa 184mila addetti in più» elenca Corò «questo significa che per parlare di nuovo manifatturiero vanno create le condizioni, che siano politiche, fiscali, di minor burocrazia, giudiziarie, finanziarie.
La nuova manifattura è un’operazione possibile solo se si realizzano i presupposti con un nuovo sistema Paese». Nel definire l’agenda per la crescita vanno individuate delle leve. «Una è certamente il sistema educativo» conclude Corò «ma poi bisogna trovare il modo di far tornare gli investimenti qui, defiscalizzandoli, creando aree burocrazia zero e riducendo l’esposizione delle imprese sul capitale bancario, che va sostituito con altri strumenti».