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LE AZIENDE FANNO DIETROFRONT: «ADDIO CINA, È MEGLIO L’ITALIA»

di Rodolfo Parietti sul Giornale di sabato 27 giugno

Gli americani lo hanno chiamato backshoring. In italiano, suona così: dietrofront. È quello eseguito, negli ultimi anni, dalle imprese che hanno deciso di rimpatriare la produzione. Riportiamo l’erticolo apparso su il Giornale di sabato 27 giugno scorso s firma Parietti.

«Addio Cina, bye-bye India, ciao Est Europa: si torna a casa». Intendiamoci: salvo rari casi in cui l’intento è quello di salvaguardare i livelli occupazionali, non c’è nulla di patriottico in questo percorso a ritroso. Mai stata una moda, la delocalizzazione smette di essere appealing non appena diventa meno vantaggiosa: sia per motivi contabili, sia perchè spesso il made in Italy, espressione della nostra creatività, è ancora un’arma vincente sui mercati internazionali. Due ragioni che spiegano un apparente paradosso: la crisi non ha fermato i rientri. Anzi. Nell’ultimo lustro, quello caratterizzato dagli spread impazziti, dall’austerity e dalla disoccupazione montante, l’intensità sembra essere addirittura aumentata. Uno studio di Uni-Club MoRe Back-reshoring, il consorzio universitario composto dagli atenei di Catania, Bologna, Udine, l’Aquila e Modena- Reggio Emilia, rileva che dal 1997 al 2013 le linee produttive riportate all’interno dei confini nazionali sono state 79. In Europa non siamo secondi a nessuno in fatto di backshoring, e a livello mondiale solo gli Stati Uniti ci surclassano. Ma il paragone con gli Usa, dove nel 2013 i nuovi posti di lavoro generati dalla rilocalizzazione sono stati superiori a quelli svaniti in seguito alla delocalizzazione, è improponibile. Se Barack Obama ha fatto del «going home» uno dei capisaldi della sua politica economica, al punto da stanziare un miliardo di dollari per allestire un reticolo di laboratori di ricerca che dovranno occuparsi del travaso di tecnologia nella nuova manifattura, in Italia non è previsto alcun incentivo per favorire i ritorni alla base. Eppure, la spinta a tornare non si esaurisce. E ha già coinvolto marchi famosi e aziende quotate. Come Beghelli, che per salvare i posti di lavoro ha deciso di disinvestire in Cina e Repubblica Ceca riportando a Bologna la produzione. Più in generale, il rimpatrio è dovuto a ragioni economiche, tra cui anche il trasferimento delle merci più oneroso che in passato, oppure a condizioni di mercato stagnanti che bloccano le merci sui mezzi di trasporto con conseguente lievitazione dei costi; poi, va messa in conto la scarsa qualità produttiva o i ritardi nelle consegne. Se Azimut ha riportato dalla Turchia ad Avigliana (Torino), la produzione dei suoi yacht da 24 metri in su, gli scarsi standard professionali negli impianti in India e Repubblica Ceca hanno invece indotto Fiamm (batterie per auto) a concentrare il più possibile le lavorazioni in Italia. Sempre per risolvere un problema di scarsa qualità delle produzioni asiatiche, Furla ha deciso di mettere la propria firma solo sulle borse confezionate nel nostro Paese. Il problema della qualità è molto sentito nel settore della pelletteria, dove anche la toscana Nannini ha optato per il backshoring, ma non è il solo. Il costo della manodopera cinese, aumentato in tre anni di quasi la metà, ha convinto Piquadro a riportare in Italia i prodotti di alta gamma. Ma la molla che porta alla «fuga» può anche essere la forza del made in Italy: And Camicie è stata praticamente costretta a spostare in Veneto parte della produzione per non perdere le commesse di una catena di grande distribuzione cinese che pretendeva che la fattura dei capi fosse realizzata sul nostro territorio.