
Umberto Galimberti si rivolge ai genitori: “Ai figli bisogna parlare”
Non stanno molto bene i ragazzi, oggi. E i responsabili sono gli adulti, presi da altro, quando invece i giovani hanno “solo” bisogno di essere ascoltati e di avere risposte.
Ospite della Scuola Genitori Plus promossa dalla Confartigianato provinciale a Bassano del Grappa, riscuotendo altrettanto successo della versione vicentina, Umberto Galimberti non risparmia di chiamare alle proprie responsabilità genitori, scuola, società. Una “lezione” la sua, rientrata anche nel programma di incontri della nuova edizione della Scuola di Politica ed Economia della stessa Confartigianato, rivelatasi preziosa per gli spunti che il filosofo ha lanciato, meritevoli di una riflessione complessiva. Perché, se è vero che ogni genitore si chiede chi sia il proprio figlio, che cosa desideri, come sia fatto il suo mondo, altrettanto vero è che spesso capirlo è complicato, ed essere d’aiuto nelle difficoltà lo è ancora di più. Nell’era di Facebook e di Instagram, la realtà che conta è quella virtuale, il tempo è accelerato e la competizione per ritagliarsi un ruolo nella società è molto forte. E come reagiscono i giovani a questa pressione? La fretta che ogni ventenne ha di realizzare i propri sogni rischia di degenerare in una forma di cinismo del tutto sconosciuta alla generazione dei suoi genitori, ha spiegato Galimberti.
TEMI E SPUNTI
I giovani oggi non stanno male solo per ragioni psicologiche connesse all’adolescenza, che oscilla tra esaltazioni e disperazione. Stanno male per la condizione culturale in cui stanno crescendo: gli adulti gli hanno “tolto il futuro”; un tempo era diverso, e per questo forse i giovani di allora erano più fortunati. Il futuro caratterizza il pensiero cristiano, ma anche quello marxista, passando per Freud. Oggi si parla di speranza, che è conforto dell’anima, ma non si attiva se non si ha nulla. Se si toglie il futuro si è demotivati, si estingue il desiderio.
Si precipita nel nulla in tre tempi: mancando “lo scopo” (appunto il futuro), mancando la risposta al “perché lo faccio?” (cioè studiare, lavorare…) e mancando “i valori” (quelle regole sociali che servono per vivere in armonia insieme). Se si depotenzia il valore dei valori perché cambiano le prime due voci, allora è bene preoccuparsi.
Oggi si assiste a una trascuratezza generale nell’educazione. Nei primi sei anni di vita si formano le mappe cognitive (ovvero come “conoscere il mondo”) ed emotive (il “sentire il mondo” attraverso la risonanza emotiva). Per le neuroscienze, avviene addirittura tutto prima: fino ai tre anni. Ma su questi aspetti non c’è più cura, si lasciano i bambini in balia della tv, del cellulare, della babysitter. Eppure, loro mostrano tutto: con i disegni, le forme e i colori. E chi guarda? Oggi no, non ho tempo, magari domani, dicono i genitori. Questo “non guardare” produce una ferita all’identità, che si forma proprio attraverso il riconoscimento o il misconoscimento ricevuto. L’identità è un dono sociale, oggi questa attenzione non c’è più. Allora bisogna fare attenzione ai figli e parlare, parlare, parlare con loro, fino ai 12/13 anni. Dopo quell’età, essi passano da un amore incondizionato nei confronti dei genitori al riconoscimento con i coetanei. E devono per forza staccarsi da mamma e papà, perché se gli restano attaccati la crescita si blocca.
Invece oggi i genitori, presi da altro, parlano poco con i figli.